Databili a fine Ottocento, queste maschere lignee sono state raccolte e in seguito donate al Museo dallo studioso e appassionato Luigi Ciceri e da sua moglie Andreina Nicoloso. A queste si aggiungono quelle già presenti in museo prima degli anni Sesanta, la raccolta acquisita da Gaetano Perusini e alcune donazioni.
I coniugi Ciceri intorno alle maschere carnevalesche raccolte principalmente nel Tarcentino e in Carnia avevano svolto numerosi studi che confluirono nel libro Il Carnevale in Friuli. Mascheramenti e maschere usi epifanici (Udine, Società Filologica Friulana, 1967) nel quale riportavano anche le testimonianze orali raccolte e molte riproduzioni di maschere e oggetti che poi sono confluiti nel Museo (la donazione risale al 1972).
Da questo prezioso lavoro riportiamo una parte del saggio introduttivo dove viene trattato il tema delle maschere (pp. 20-23).
«Le maschere facciali lignee carnevalesche hanno, in Friuli, diversi nomi a seconda delle zone. Il nome più diffuso è mascare, seguono moretine e tomàt. L'appellativo tomàt è diffuso nel Friuli centro-orientale.
Il Saccavino, nel suo scritto «Spassi carnevaleschi in Friuli», dice: «A Reana, e forse in qualche altro paese, il capo della comitiva portava un testone più grosso e goffo degli altri camerati ed era chiamato tomàt. Con questo nomaccio si voleva forse indicare uno sposo ipotetico che andasse alla ricerca della ragazza, onde il detto, ricordato anche dal «Nuovo Pirona»: E spiete lu tomàt, e questi altri: Al vegnarâ il tomàt. Tenti in bon Polonie, ch'al vegnarà il tomàt».
Nella Valle del Torre, molteplici i nomi: tomàt, mascare, moretine, buretine, brutine e bieline.
In Friuli si trova anche voltin che si riferisce spesso alla mezza maschera, ed anticamente bertul. In Carnia la chiamano moretine. Il «Nuovo Pirona» riporta anche: morete, musette, musecje.
La moretine, dice il Gortani, parlando delle maschere carniche, era portata dai giovani nelle baldorie carnevalesche o nei festosi cortei per nozze. Il termine mascare indica generalmente anche il mascherato.
Dividiamo le maschere lignee carniche in quattro gruppi, ognuno dei quali con proprie caratteristiche.
Le maschere di Forni di Sotto, grandi mascheroni dipinti e caricaturali, che vogliono far ridere con semplici sberleffi; le maschere di Sauris, dipinte con colori bellissimi, che riproducono facce semplici e belle, senza deformazioni, e che più che far ridere o far paura servono solo a celare l'identità del mascherato; le maschere grottesche di Collina pure magistralmente dipinte, infine le maschere nere (dipinte o di legno scuro o annerite dal tempo) del basso canale di S. Pietro, di Illeggio e soprattutto di lmponzo, che sono le più arcaiche e le più artisticamente intagliate. Le maschere carniche venivano dipinte con colori naturali, ricavati da erbe e da terre.
Riportiamo ora quanto ci riferisce Michele Gortani sulle maschere carnevalesche del Museo delle Arti e Tradizioni Popolari della Carnia, nel volume L'arte popolare in Carnia, edito dalla Filologica nel 1965.
«Le maschere di Forni di Sotto sono quasi tutte caratterizzate dalle dimensioni eccezionalmente grandi e dall'espressione ironica che si legge sui loro volti. Sotto questo aspetto ha il primo posto un grosso faccione roseo, che avemmo ornato da una pelliccia di agnello e che fa il paio con una allungatissima faccia rubiconda. Singolare è anche il gruppo cosiddetto dei Re Magi, che raffigurano un re gigantesco (60 cm.), una regina dalle fattezze volgarmente robuste, con un gozzo a sinistra e con due lunghe trecce di strame e un reuccio poco significante. Erano usate nella ricorrenza della Epifania dai ragazzi, che giravano di casa in casa cantando la canzone dei Re Magi. Da Forni di Sotto proviene anche una maschera del diavolo che mostra una faccia piriforme asciutta e nera con gli occhi e la bocca cerchiati di rosso scarlatto, le sopracciglia e le pieghe del naso pure sottolineate di rosso, la lingua rossa fuori dai denti. Meritano particolare attenzione un gruppo di antiche maschere di lmponzo. Due di esse hanno la bocca atteggiata a ghigno e altre due intagliate con notevole vigoria si estendono lateralmente fino a coprire la faccia quasi per intero. Un confronto con le maschere delle regioni alpine circostanti porta alle seguenti conclusioni: mancano fra noi le maschere zoomorfe (non fa eccezione il Leone di San Marco proveniente da Claudinico, sia perché è evidente il suo significato politico, sia perché nella maschera la faccia dell'animale è profondamente umanizzata: mancano anche, fra noi, le maschere terrificanti a cominciare dagli arcidiavoli delle Alpi austriache con fino a otto paia di corna; i nostri dia voli sembrano intesi piuttosto a dare un monito che a destare terrore, così anche il diavolo proveniente da Imponzo, a dispetto del paio di corna di montone che ha sulla fronte, si palesa come bonaccione. Le nostre maschere sono in prevalenza ridanciane e caricaturali; rivelano l'indole mite della nostra gente aliena dall'incutere sgomento e temperata anche entro i limiti del grottesco».
Noi abbiamo riprodotto anche tre maschere carniche nere che si trovano a Venezia presso il libraio antiquario Cassini. Esse furono acquistate verso il 1910 in Carnia dal padre dell'attuale proprietario. Esse sono, a mio giudizio, le più belle e suggestive. Provengono, forse, dalla zona del basso canale di S. Pietro. Comunque sia la datazione, sia la esatta provenienza delle maschere carniche sono incerte e non ci sono elementi per dare loro una sicura collocazione. Le più antiche sono le maschere nere della zona tolmezzina; forse qualcuna di esse è del '700. tutte le altre sono dell' '800 o dei primi anni del '900. Le maschere di Forni di Sotto, Sauris e Collina sono state raccolte da Giovanni Pellis, alla cui memoria è dedicata la relativa sala del Museo stesso.
Dopo le maschere carniche, abbiamo le maschere dell'alta valle del torre. Il primo gruppo di queste maschere riunisce quelle che abbiamo trovato a Coia e a Billerio. Sono maschere grottesche, tutte riproducenti la faccia umana in vari atteggiamenti smorfiosi o con difetti anatomici ridicoli o ripugnanti. Di alcune di queste maschere si conosce l'autore. Esse sono tutte dipinte e, come tutte le altre maschere di questa zona, non sono molto vecchie. Le più antiche sono degli ultimi decenni del secolo scorso. La tradizione però delle mascherate con maschere lignee è molto più antica. Le maschere sono difficilmente reperibili perché si gettano via o perché logore o perché sono già state viste e non costituiscono più una sorpresa.
Il più bravo dei mascherari di Coia, e più precisamente della borgata di Zucje è stato Lodovico Toso Vico Tôs, morto nel 1917, dalle cui mani uscirono maschere bellissime, con i tratti del volto molto pronunciati in forma grottesca. Le maschere di Vico Tôs servirono da modello ad altri mascherari viventi, tra i quali Augusto Del Medico - Gusto Pirinici, Guido e Olvino Del Medico e Cesare Toso, figlio di Lodovico. Altri mascherari di Coia furono Francesco Muzzolini, Antonio Vidoni Toni de Sare, Domenico Del Medico Meni de Surîs e Alceo Muzzolini - Vergon, tuttora vivente e ancora pien di brio. Quasi tutti i mascherari erano anche gli animatori delle mascherate e gli inventori dello strît, cioè del motivo burlesco. Tra gli animatori vogliamo ricordare Pietro Muzzolini - Pieri Vergon, padre di Alceo.
Nei casolari di Coia abbiamo trovato anche maschere suggestive per il gioco delle rughe o arieggianti maschere orientali.
Dopo Coia, sparsa in un semicerchio di colli, c'è Sammardenchia. Qui quasi in ogni casa abbiamo potuto trovare maschere. Queste sono meno smaliziate e meno bonarie. Sono le più popolari, ingenue nella loro bruttezza che è elemento costante, giacché servivano per mascherati che andavano a brut cioè per le maschere brutte. In esse soprattutto i nasi e le bocche sono deformati.
Abbiamo trovato una sola maschera zoocefala, a Malamaserie, con le corna e l'osso frontale di mucca, il naso che imita quello del maiale e la bocca mobile. La maschera raffigurante una testa di gallo è recente. Infine abbiamo trovato una maschera dipinta in bianco, rosso e verde, che mi dissero abbia voluto raffigurare Garibaldi. Queste maschere hanno la bocca forata e internamente una linguetta di cuoio che veniva messa in bocca dal mascherato per alterare la voce.
Per sostenerle, dato che sono un po' pesanti (quelle carniche sono leggerissime) si legavano sopra la testa con grossi spaghi. Dal mento partiva uno spago che si legava sulla nuca, perché non potessero venir sollevate. Spesso erano dotate di capigliatura con pelli di agnello o crine o completate con fazzoletti o cappellacci. Spesso erano anche dotate di barba e baffi che, quando noi le abbiamo trovate, non c'erano più.
Talvolta questi mascherari sceglievano delle radici che già avessero sembianze umane cosicché, con qualche ritocco, la maschera era pronta.
Alcune di esse hanno il naso applicato e intercambiabile.
Esse venivano ricavate da legni dolci, esistenti nella zona: vencjaresse, ornâr, pôl.
Infine abbiamo potuto rintracciare due maschere a Villanova. Queste sono semplici e bambinesche, avendo solo un lunghissimo naso applicato.
Mai comunque abbiamo rintracciato o avuto notizia di maschere tradizionali, cioè ripetenti lo stesso soggetto. Tutte le maschere da noi viste sono generiche. Mi è stato riferito che si usavano persino maschere fatte solo con la corteccia degli alberi o con zucche vuote.
In tutti questi paesi la maschera si chiama tomàt, talvolta moretine, il mascherato si chiama mascare.
Ci hanno riferito che anche in tutti gli altri paesi della Valle del Torre e della Valle del Cornappo un tempo si usavano sempre maschere lignee, ma non ci è stato possibile rintracciarne. Data la ricerca capillare da noi fatta, riteniamo che non ne esistano altre.
Oltre alle maschere lignee, molto diffuso era l'uso di mascherarsi con maschere di cartone o di stoffa, o con semplici veli; ancora più diffuso era l'uso di dipingersi il viso con carbone o fuliggine o con colori diversi o di appiccicarsi sulla faccia, bagnata di sostanza gommosa, piume o altro. Recente l'uso di acquistare generiche maschere in negozio, specie per i bambini. Nella Valle del Torre, quando uno va in maschera senza alcun mascheramento facciale, si dice a muse.»